possibile che nessun utente del forum ha questo libro?
comunque,per chi come me,ha la versione difettosa queste sono le pagine mancanti:
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bandonate lungo i fianchi. Il pubblico continuava ad affluire e gli spalti si andavano riempiendo.
Un ruggito si levò dalla folla. Lo riconobbero. Era il grido che chiedeva sangue, esprimeva il desiderio di assistere a una battaglia.
Harl sogghignò. — Il tipico pubblico del calcio — commentò.
Continuava ad arrivare altra gente, ma era chiaro che gli abitanti della città in rovina potevano riempire solo una parte piccolissima di quelle decine di migliaia di posti.
Idue sembravano perduti in quello spazio enorme. In alto, quasi allo zenith, stava il grande sole rosso. Avevano l'impressione di muoversi in un deserto invaso dal crepuscolo, orlato di enormi scogliere bianche.
— Denver doveva essere una città molto grande quando fu costruito questo stadio — commentò Bill. — Pensa a quanta gente poteva contenere. Chissà a che cosa serviva?
— Probabilmente non lo sapremo mai — disse Harl.
Erano arrivati circa al centro dell'arena.
Harl si fermò. — Sai una cosa? — disse. — Stavo pensando. Mi pare che abbiamo buone possibilità contro Golan-Kirt. In questo ultimo quarto d'ora tutti i nostri pensieri sono stati un'aperta sfida, ma non ha ancora tentato di annientarci. Comunque, è possibile che stia solo prendendo tempo. Comincio a credere che non possa leggere le nostre menti come leggeva quella del vecchio. L'ha ucciso nello stesso istante in cui il vecchio lo ha tradito.
Bill annuì.
Quasi in risposta alle parole di Harl, un grande peso parve calare su di loro. Bill si sentì invadere da un malessere mortale. Le ginocchia gli si piegarono, la sua mente turbinò. Mille chiazze danzarono davanti ai suoi occhi, e un dolore orribile gli afferrò lo stomaco.
Mosse un altro passo e inciampò. Una mano gli strinse la spalla, lo scrollò rabbiosamente. La scossa gli schiarì per un attimo il cervello. Tra la nebbia che sembrava aleggiare davanti ai suoi occhi, scorse la faccia dell'amico, una faccia pallida e contratta.
Le labbra di quel viso si mossero: — Forza, vecchio mio. Non hai assolutamente niente. Stai benone.
Qualcosa sembrò spezzarsi nella testa di Bill. Quella era suggestione... la suggestione di Golan-Kirt. Doveva combatterla. Ecco tutto... combatterla.
Piantò saldamente i piedi nella sabbia, raddrizzò le spalle con uno sforzo e sorrise.
— Diavolo, no — disse. — Non ho proprio niente. Sto benone.
Harl gli diede una manata sulla schiena. — Così va bene — ruggì. — Per poco non ha steso anche me. Dobbiamo lottare, ragazzo mio. Dobbiamo lottare.
Bill rise, rauco. Adesso aveva la mente sgombra e sentiva la forza riaffluire nel suo corpo. Avevano vinto la prima ripresa.
— Ma dov'è questo Golan-Kirt? — sbottò.
— È invisibile — ringhiò Harl. — Ma sono convinto che non possa tirar fuori i suoi trucchi migliori, in quello stato. Lo costringeremo a mostrarsi, e allora organizzeremo i fuochi d'artificio.
Giunse alle loro orecchie il ruggito frenetico della folla. Gli spettatori, dagli spalti, avevano visto e apprezzato il piccolo dramma al centro dell'arena, e adesso chiedevano qualcosa d'altro.
All'improvviso un crepitio sprezzante proruppe alle spalle dei due.
Spalancarono gli occhi. Conoscevano bene quel suono. Era il crepitare di una mitragliatrice. Senza cerimonie si buttarono a terra, appiattendosi, cercando di nascondersi nella sabbia.
Piccoli sbuffi di polvere scaturirono tutto intorno a loro. Bill sentì un dolore bruciante a un braccio. Una delle pallottole lo aveva colpito. Era la fine. Non c'era niente che potesse ripararli in quell'ampia distesa piatta, contro la mitragliatrice che crepitava ridendo dietro di loro. Un altro dolore bruciante gli trafisse una gamba. Un'altra pallottola.
Poi rise... una risata frenetica. Non c'era nessuna mitragliatrice, nessun proiettile. Era tutta suggestione. Un trucco per far credere loro che venivano uccisi: un trucco che, se fosse continuato abbastanza a lungo, li avrebbe uccisi davvero.
Si sollevò in ginocchio, afferrando Harl per farlo rialzare. La gamba e il braccio dolevano ancora, ma egli non vi badò. Non erano stati colpiti, si disse rabbiosamente, non avevano niente di niente.
— È un'altra suggestione — urlò a Harl. — Non c'è nessuna mitragliatrice.
Harl annui. Si rialzarono e si voltarono. Là, a un centinaio di metri da loro, una figura in divisa cachi stava acquattata dietro a una mitragliatrice che crepitava rabbiosa, la canna lambita da una fiamma rossa.
— Quella non è una mitragliatrice — disse Bill, lentamente.
— Sicuro, non è una mitragliatrice — ripeté Harl.
Avanzarono a passo lento verso l'arma fiammeggiante. Sebbene i proiettili sembrassero fischiare tutto intorno a loro, nessuno li colpì. Il dolore al braccio e alla gamba di Bill era scomparso.
All'improvviso la mitragliatrice sparì, insieme alla figura in divisa cachi. Un attimo prima erano lì, ma adesso non c'erano più.
— L'immaginavo — disse Bill.
— Però quello va ancora forte — rispose Harl. — Ecco là un'altra delle sue suggestioni.
Harl stava indicando una delle arcate. Stavano entrando a passo di marcia file e file di soldati in uniforme color cachi, gli elmetti metallici sulla testa, i fucili in spalla. Un ufficiale gridò un secco comando e le truppe cominciarono a spiegarsi sull'arena.
Un acuto squillo di buccina distolse dai soldati l'attenzione dei due viaggiatori nel tempo, e attraverso un'altra arcata videro avanzare una coorte di legionari romani. Gli scudi balenavano cupamente nel sole, e si sentiva nitidamente lo sferragliare delle armi.
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C'era un aperto tono di beffa, nelle emanazioni del cervello.
Harl alzò la voce, quasi urlando. Era un gesto voluto, nella speranza che gli uomini del futuro udissero, si rendessero conto finalmente della vera natura del tirannico Golan-Kirt. E gli uomini del futuro udirono, spalancando la bocca per lo sbalordimento.
— Tu, un tempo, eri un uomo — ruggì Harl. — Un grande scienziato. Ti eri specializzato nello studio del cervello. Alla fine scopristi un grande segreto, che ti diede la possibilità di sviluppare il tuo cervello in misura inaudita. Sicuro della tua tecnica, rendendoti conto del potere che avresti potuto conquistare, trasformasti te stesso in un essere tutto cervello. Sei un impostore e un mentitore. Hai malgovernato questa gente per milioni di anni. Tu non sei venuto dal Cosmo... sei un uomo, o ciò che un tempo era un uomo. Sei un'atrocità, un'abominazione...
Le emanazioni di pensiero che fluivano dal cervello fremevano di furore: — Tu menti. Io sono venuto dal Cosmo. Io sono immortale. Vi ucciderò... vi ucciderò.
All'improvviso Bill rise, una sghignazzata sonante. Era una fuga dalla tensione terribile: ma mentre rideva si rese conto del ridicolo della situazione: due viaggiatori del ventesimo secolo, milioni d'anni più avanti del loro tempo, impegnati a lottare con un impostore che si era imposto come dio a un popolo che non poteva essere nato se non molto tempo dopo la sua morte.
Sentì il potere orribile di Golan-Kirt centrarsi su di lui. Il sudore gli inondò il volto, il suo corpo tremò. Sentì che le forze lo abbandonavano.
Smise di ridere. In quell'istante, ebbe l'impressione di venire colpito. Barcollò. Poi. fulmineamente, comprese. Il riso. Il riso e il ridicolo! Quello era il sistema.
— Ridi, stupido, ridi — urlò a Harl.
Senza capire. Harl obbedì.
Idue risero, freneticamente. Risa ululanti, ruggenti.
Quasi senza sapere ciò che faceva, quasi involontariamente, Bill urlò cose orribili al grande cervello, lo insultò, lo provocò, lo chiamò con epiteti innominabili.
Harl cominciò a capire. Bill stava giocando una partita grandiosa. Un egoismo supremo come quello del cervello che stava loro di fronte non poteva sopportare il ridicolo, e avrebbe perso il controllo sotto una tempesta di sarcasmo. Per secoli innumerevoli, grazie al suo potere miracoloso, aveva continuato a vivere, e per tutto quel tempo aveva solo ricevuto onori supremi. Non era abituato alla derisione, l'arma terribile scatenata all'improvviso contro di lui.
Harl imitò Bill, urlando frasi beffarde a Golan-Kirt. Era una fiera di sarcasmo. Non erano neppure consci delle loro parole. Le loro menti reagivano alla situazione d'emergenza, le loro lingue formavano frasi pungenti e impensabili.
E tra una frase e l'altra ridevano, ululando di gaiezza satanica.
Ma tra le risate sentivano il potere del cervello. Sentivano la sua collera crescere alle loro beffe.Iloro corpi erano straziati dal dolore, e avrebbero voluto lasciarsi cadere sulla sabbia e contorcersi per la sofferenza, ma continuavano a ridere e a urlare insulti.
Pareva che lottassero con Golan-Kirt da un'eternità, senza smettere di sghignazzare mentre soffrivano torture inenarrabili dalla sommità del capo alle piante dei piedi. E tuttavia non osavano interrompere quelle risa, non osavano smettere quell'orrenda derisione, scagliavano beffe contro l'immane intelligenza che li fronteggiava. Era la loro unica arma. Senza quella, le onde travolgenti della suggestione che si riversavano con furia implacabile sopra di loro avrebbero spezzato ogni nervo dei loro corpi.
Sentivano la rabbia del grande cervello. Era letteralmente impazzito per il furore. Ci stavano arrivando! Con il ridicolo, gli stavano rubando la vita.
Inconsciamente, lasciarono che le loro risa si attenuassero. Piombarono nel silenzio, sfiniti.
Improvvisamente sentirono la forza terribile del cervello rinnovarsi, come se attingesse a una misteriosa riserva. Li colpì come un maglio, facendoli piegare in due, annebbiando i loro occhi, abnubilando le loro menti, straziando ogni nervo e ogni giuntura.
Ferri roventi parevano trapassarli, centinaia di aghi parevano affondare nelle loro carni, coltelli affilati sembravano straziare i loro corpi. Barcollavano ciecamente, brancolando, mormorando maledizioni, gridando di dolore.
Nella nebbia rossa della tortura giunse un bisbiglio, un mormorio sommesso e incantatore, ammiccante, che mostrava loro una via d'uscita.
— Volgete le armi contro voi stessi. Ponete fine a tutte le torture. La morte è indolore.
Il mormorio fluttuò nei loro cervelli. Quella era la via d'uscita! Perché subire quella tortura interminabile? La morte era indolore. La canna contro la tempia, una pressione sul grilletto, l'oblio.
Bill si puntò la pistola alla tempia. L'indice si contrasse sul grilletto. Rise. Che bello scherzo. Uno scherzo splendido. Derubare Golan-Kirt!
Un'altra voce si insinuò nella sua risata. Era Harl.
— Sciocco! È Golan-Kirt! È Golan-Kirt, stupido!
Vide il suo amico che si avvicinava barcollando, con il volto contratto dalla sofferenza, vide il movimento delle labbra livide che gli gridavano il monito.
Bill lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. Sebbene continuasse con quella risata insana, si sentiva invadere dall'angoscia. L'orrendo cervello aveva giocato la sua carta migliore e non l'aveva spuntata, ma era mancato poco che lo finisse. Se non fosse stato per l'intervento di Harl, ora egli sarebbe stato lì, disteso sulla sabbia, con la testa squarciata.
Poi all'improvviso sentirono il potere del cervello allentarsi, la sua forza attenuarsi e defluire. L'avevano battuto!
Sentirono lo sforzo gigantesco del cervello, la lotta per riconquistare la presa perduta.
Per anni infiniti era vissuto senza lotta, senza che nessuno contestasse il
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La folla proruppe in un grido di saluto. Harl salì a bordo e chiuse il portello.
Imotori urlarono, soffocando le grida degli uomini del futuro, e l'aereo si lanciò avanti sulla sabbia. Si sollevò. Per tre volte Bill sorvolò la città in rovina in un ultimo saluto agli uomini che li guardavano dal basso, muti e angosciati.
Poi Harl abbassò la leva. Di nuovo l'oscurità assoluta, la sensazione di essere librati nel nulla.
Imotori, che giravano appena, mormorarono a quel cambiamento. Passò un minuto. Due minuti.
— Chi dice che non possiamo viaggiare a ritroso nel tempo? — gridò trionfante Harl. Indicò l'ago. Stava arretrando lentamente su! quadrante dell'indicatore.
— Forse il vecchio si sbagliava, quindi... — Bill non finì la frase. — Ritorna nel tempo! — urlò a Harl. — Ritorna nel tempo! Uno dei motori si sta spegnendo!
Harl afferrò la leva, la mosse freneticamente. Il motore sfasato tossì, sputacchiò, poi proruppe in un rombo costante.
Nella cabina, i due uomini si guardarono, sbiancati in volto. Sapevano di essere sfuggiti alla morte per pochi secondi.
Erano di nuovo librati in aria. Rividero il sole rosso mattone, il deserto e il mare. Sotto di loro grandeggiavano le rovine di Denver.
— Non possiamo essere tornati indietro di molto nel tempo — disse Harl. — Mi sembra lo stesso panorama.
Volarono in cerchio sui ruderi.
— Dovremmo atterrare nel deserto per riparare il motore — suggerì Harl. — Ricorda che abbiamo viaggiato a ritroso nel tempo e Golan-Kirt regna ancora. Non vorrei che fossimo costretti a ucciderlo una seconda volta. Forse stavolta non ci riusciremmo.
L'aereo stava volando a bassa quota: lo fece impennare. Il motore difettoso sputacchiò di nuovo, riprese irregolarmente.
— Stavolta si ferma — urlò Bill. — Dobbiamo correre il rischio, Harl. Dobbiamo atterrare e sperare di cavarcela.
Harl annuì, torvo.
Davanti a loro stava la grande arena. C'era poco da scegliere: o atterrare là o schiantarsi.
Quando Bill fece scendere l'aereo, il motore guasto sputacchiò per l'ultima volta e si spense.
Passarono sfrecciando al di sopra delle mura candide dell'anfiteatro e scesero nell'arena. L'aereo toccò la sabbia, avanzò correndo, rallentò e si fermò.
Harl aprì il portello.
— La nostra unica speranza è ripararlo in fretta e andarcene — gridò a Bill. — Se non vogliamo incontrare di nuovo quel maledetto cervello.
S'interruppe di colpo.
— Bill — disse in un sussurro. — Ho le allucinazioni?
Davanti a lui, sulla sabbia dell'arena, a pochi metri dall'aereo, c'era un monumento di proporzioni eroiche, che raffigurava lui e Bill.
Dal punto in cui si trovava poteva leggere l'iscrizione, incisa nel basamento di pietra candida in caratteri molto simili all'inglese scritto.
Lentamente, un po' a fatica, la lesse a voce alta, esitando di tanto in tanto di fronte a un carattere sconosciuto.
—Due uomini, Harl Swanson e Bill Kressman, vennero dal tempo per uccidere Golan-Kirt e liberare la nostra razza.
Poi, sotto, vide degli altri caratteri.
—Forse ritorneranno.
— Bill — singulto, — non abbiamo viaggiato a ritroso nel tempo. Abbiamo continuato ad avanzare nel futuro. Guarda la pietra... è corrosa, sta per sgretolarsi, per andare a pezzi. Questo monumento è qui da migliaia di anni!
Bill si lasciò ricadere sul sediolo, cinereo in volto e con gli occhi sbarrati. — Il vecchio aveva ragione — gridò. — Aveva ragione. Non rivedremo mai più il ventesimo secolo.
Si sporse sulla macchina del tempo.
Il suo volto si contorse.
— Gli strumenti — urlò, — questi maledetti strumenti! Hanno sbagliato. Hanno mentito, mentito!
Li percosse con le mani nude, fracassandoli, senza far caso ai frammenti di vetro che gli tagliavano le mani, facevano sgorgare il sangue.
Il silenzio pesava sulla pianura. Non c'era assolutamente il minimo suono. Poi Bill ruppe quel silenzio.
— Gli uomini del futuro — gridò. — Dove sono gli uomini del futuro?
Poi rispose egli stesso alla sua domanda:
— Sono morti tutti — urlò. — Tutti morti. Morti di fame... di fame. perché non sono riusciti a fabbricare cibo sintetico. Siamo soli! Soli alla fine del mondo!
Harl era ritto accanto al portello dell'aereo.
Sopra l'orlo dell'anfiteatro l'enorme sole rosso era librato in un cielo senza nuvole. Un vento leggero smuoveva la sabbia alla base del monumento corroso.
* * *
Cliff Simak è oggi una figura di grandissimo rilievo nel mondo fantascientifico.Il mondo del sole rossofu il primo suo racconto pubblicato; ed era scritto in modo semplice e chiaro. Aveva anche un finale triste, e ricordo che a quel tempo mi fece molta impressione. Non potevo fare a meno di riconoscere la forza di un finale drammatico ed ironico. (Ce l'aveva anche L'uomo che si evolse.)
Simak fu un'eccezione tra gli autori di quei tempi, in quanto sopravvisse all'Avvento di Campbell. Quasi tutti gli altri autori non ce la fecero. (Fu un po' come l'avvento del cinema sonoro, che fu la rovina per moltissimi attori che avevano imparato il mestiere nel mondo del muto.)
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TUMITHAK DEI CORRIDOI
Tumithak of the Corridors
di Charles R. Tanner
Premessa
Solo in questi ultimi anni l'archeologia è arrivata a un punto tale da consentirci di cominciare, finalmente, ad apprezzare i sorprendenti progressi scientifici realizzati dai nostri antenati prima della Grande Invasione. Gli scavi compiuti tra le rovine di Londra e di New York, in particolare, hanno contribuito ad arricchire la nostra conoscenza della vita di tali antenati. Conoscevano il segreto del volo, e conoscevano la chimica e l'elettricità molto meglio di noi: questo è certo, e alcuni indizi ci inducono a pensare che ci superassero anche per quanto riguarda la medicina e alcune arti. Se prendiamo la loro civiltà nel complesso, è dubbio che siamo riusciti a superarli nell'ambito della conoscenza in generale.
Fino al tempo dell'Invasione, sembra che le loro scoperte dei segreti della Natura venissero compiute costantemente in una progressione geometrica regolare, e abbiamo buone ragioni di credere che sia stato il popolo della Terra a risolvere per primo il problema del volo interplanetario.Imolti romanzi scritti su quell'epoca attestano l'interesse che noi moderni proviamo per quella che chiamiamo l'Età dell'Oro.
Ma questa vicenda non si occupa dei tempi dell'Invasione, né della vita quale era nella precedente Età dell'Oro. Narra invece la vita di un personaggio semimitico e semistorico. Tumithak di Loor, il quale, ci dice la leggenda, fu il primo uomo che si ribellò ai feroci shelk. Sebbene manchino ancora innumerevoli particolari, le recenti indagini compiute nelle Fosse e nei Corridoi hanno gettato una notevole luce su ciò che vi era di oscuro nella vita di questo eroe. Oggi abbiamo la certezza che egli è esistito e che ha davvero combattuto; ed è quasi altrettanto certo che non siano veri i miracoli a lui attribuiti dalla leggenda.
Per esempio, possiamo ritenere con certezza che egli non sia vissuto duecentocinquant'anni; che la sua forza prodigiosa e l'invulnerabilità ai raggi degli shelk siano soltanto mitiche, come lo sono senza dubbio anche le storie che gli attribuiscono la distruzione delle sei città.
Ma la nostra conoscenza della sua vita migliora via via che diminuisce la nostra fede nelle leggende, ed è venuto il tempo in cui possiamo afferrare vagamente, ma da un punto di vista più razionale, la verità sulle sue imprese. Perciò, in questo racconto, l'autore cerca di razionalizzare, di inquadrare adeguatamente sul suo sfondo storico la prima parte della vita di un grande eroe che osò colpire arditamente nel nome dell'Umanità, ai tempi in cui le Belve di Venere tenevano in soggezione tutta la Terra...
Capitolo 1. Il ragazzo e il libro
Il corridoio lungo e buio si estendeva apparentemente senza fine. Era alto quattro metri e mezzo, largo altrettanto, e continuava a perdita d'occhio: le pareti marrone, vitree, non cambiavano mai. A intervalli, lungo la linea centrale del soffitto, c'erano grandi lampade accese, lastre piatte di fredda luminescenza bianca che da secoli splendevano senza bisogno di manutenzione. A intervalli altrettanto frequenti c'erano porte profondamente incassate, chiuse da rozzi drappi di tessuto simile alla tela di sacco, con le soglie consunte dal passaggio di innumerevoli piedi per innumerevoli generazioni. La monotonia della scena si infrangeva soltanto là dove il corridoio si incrociava con un altro di eguale semplicità.
Il corridoio non era deserto. Qua e là, per tutta la sua lunghezza, si scorgevano delle figure: uomini, quasi tutti con occhi azzurri e capelli rossi, vestiti di tuniche di rozza tela da sacco fermate alla vita da alte cinture a tasche, con fibbie enormi. Si vedevano anche alcune donne, che si distinguevano dagli uomini perché avevano capelli e tuniche più lunghi. Tutti si muovevano con aria furtiva perché, sebbene fossero trascorsi molti anni dal Terrore, non era facile liberarsi delle abitudini di cento generazioni. E così il corridoio, i suoi frequentatori, i loro abiti e persino le loro abitudini contribuivano a rendere cupa e monotona la scena.
Dal basso, molto al di sotto del corridoio, saliva la pulsazione costante di una macchina gigantesca: una pulsazione che continuava incessantemente e faceva parte della vita di quelle persone, tanto che esse se ne accorgevano solo con qualche difficoltà. Eppure quel battito li assediava, penetrava nelle loro menti, e con il suo ritmo costante condizionava tutto ciò che esse facevano.
Una parte del corridoio sembrava più popolata delle altre. Lì le lampade brillavano più fulgide, le stoffe che chiudevano i varchi erano più nuove e più pulite, e si vedeva più gente. Entravano e uscivano più furtivamente da quelle porte, simili a conigli impegnati in qualche grande impresa.
Da una di quelle porte uscirono un ragazzo e una ragazza. Sui quattordici anni, erano eccezionalmente alti, e sembravano quasi adulti, sebbene la loro immaturità apparisse evidente. Anch'essi, come i più anziani, avevano gli occhi azzurri e i capelli rossi, e una carnagione pallida, dovuta all'eterna mancanza di sole e alla continua esposizione ai raggi delle lampade dei corridoi. Avevano una certa aria svelta e ardita che induceva molti frequentatori dei corridoi ad aggrottare la fronte con fare di disapprovazione al loro passaggio.
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