Esiste un fiato corto narrativo, e io lo padroneggio benissimo. Racconti di formazione, d'iniziazione, mossi più da una musica interna che dalla pretestuosità d'una trama. E quei finali strozzati, dove non si sa mai davvero "come è andata la faccenda"... Ma sì: La gabbia a pagoda ha una struttura botallica. C'era in me (forse è rimasta) un'euforia d'asfittico, di chi resta senza ossigeno sott'acqua: il sogno di morire ridendo. Il frutto è quello che vedete. Faticosi parti contro natura, guidati dal forcipe d'un ubriaco. E dunque, perché farla tanto lunga? Tolta qualche esagerazione, le cose devono essere andate più o meno come ve le ho raccontate, tra l'emergenza-parto nei western di John Ford e l'Italiuccia povera ma onesta di Pane, amore e fantasia. Per il resto, non c'è molto da dire. La gabbia a pagoda uscì alla macchia presso un editore ancora più piccolo di quello che ora ha l'azzardo di ripubblicarlo. Giovanni Arpino, con un sorriso alla Robert Mitchum, disse che fortunatamente era un libro "poco italiano". (dal racconto Perché scrivo libri così belli)
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