Queste sue storie, Edith Wharton cominciò a scriverle nel 1909 e le continuò a più riprese fino al 1937, anno della sua morte avvenuta a Saint-Brice-sur-Forêt, nella Seine-et-Oise: storie che punteggiano, come una sorta di controcanto, una vastissima produzione, della quale non sono affatto un aspetto minore o marginale. Anzi, per quanto rigorosamente trascurate da quei pochi che, da noi, si sono occupati della Wharton, appaiono, soprattutto oggi che le possiamo giudicare secondo il metro della serenità e del distacco, una sorta di sintesi dei modi, delle tematiche, delle soluzioni stilistiche della Wharton - una specie di vademecum di tutta la sua opera. Il «soprannaturale», sostiene Edith Wharton, si manifesta ovunque, è sempre in attesa dietro l'angolo: non ci sono classi sociali, non ci sono persone più favorite (o sfavorite) di altre, non c'è impossibilità costituzionale a coglierne la presenza. Vi sono soltanto stati d'animo privilegiati ma, soprattutto, ci sono luoghi «infestati », luoghi che l'accumulo di memorie e di esistenze trasforma in casse di risonanza, in strumenti che l'impensabile fa vibrare. Ora, ed è uno degli aspetti di maggior momento di questi bellissimi racconti, ognuno dei quali perfetto, conciso nella sua dimensione, se ció avviene è a ironica smentita della sicurezza di cui si ammanta e si vanta la cultura occidentale, una sicurezza fatta di certezze scientifiche, di incrollabili convinzioni, di affermazioni incontrovertibili. Ed è proprio l'ironia il filo rosso che percorre tutte queste storie: l'ironia, il gioco, l'incredulità e insieme la meraviglia per i molti enigmi che la realtà propone a ogni passo.
|