In una corrispondenza apparsa sul "National Standard" del 22 giugno 1833, William Tackeray denunciava in letteratura la moda dilagante delle insistite, compiaciute e minuziose descrizioni di particolari raccapriccianti relativi a stupri, assassinii e violenze di ogni genere. Biasimando Balzac, Dumas, Soulié, autori a suo dire inclini a quel gusto deteriore, quale esempio tipico Tackeray citava soprattutto il Borel dei Contes immoraux, inventariando con cura quanto della sua opera pertiene ad aspetti macabri o diabolici. Orientamenti simili furono prevalenti tra i lettori e i critici dell'epoca. Ma i Contes immoraux - di cui si presenta qui un'ampia scelta, nella nuova traduzione di Enrico Badellino - a ben vedere sembrano insistere su un diverso assunto: la lotta efferata per la sopravvivenza non porta mai alla vittoria di uno dei contendenti ma si conclude con il trionfo della morte, con l'annientamento di entrambi; o, per meglio dire, l'esito di quella lotta è sempre e comunque un senso lancinante di vanità, di inutilità, di vuoto, il vuoto di esistenze sospese sulla vertiginosa indifferenza di un destino cieco.Traspare indubbiamente da queste pagine un'ispirazione sadiana non superficiale. Ma se Borel segue le orme del Divino Marchese fin sugli aspri terreni delle sue "dure e coraggiose verità" (Benedetto Croce) se ne discosta quando è questione di sancire l'ineluttabile trionfo delle prospèrités du Vice sui malheurs de la Vertu. Non il vizio, infatti, trionfa nell'"immorale" Borel, - autore non a caso amatissimo dal giovane Flaubert bensì il Nulla, un nulla angoscioso, che raggela.
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