E' impossibile abolire il passato, ed è altrettanto impossibile rifiutare il presente: è il comune denominatore di questi racconti della piena maturità di Scott, popolati di apparizioni, sogni premonitori, maledizioni. Racconti in cui, crivera con ammirazione H. P. Lovecraft, «la potenza dell'elemento spettrale e diabolico viene accentuata da un'insolita semplicità di linguaggio e di atmosfera». L'autore di "Waverley" e "Ivanhoe" e compilatore delle "Lettere sulla demonologia e la stregoneria", vasto compendio di tradizioni europee del soprannaturale fu sempre affascinato dalle superstizioni. Ma dietro l'ariosità e la gioia del raccontare con cui Scott utilizza il patrimonio orale di ballate e leggende scozzesi sta qualcosa di più profondo: il vanto della diversità di un popolo che ha dovuto accettare - ferita sempre aperta - l'assimilazione all'Inghilterra. La tradizione è la bandiera di personaggi che lottano contro le leggi e contro il pragmatismo borghese dei sassoni, inconciliabili con la memoria di una dimensione eroica dell'esistenza, con un'etica arcaica della forza e dell'onore. E il rifiuto di relegare la superstizione alla sfera confessionale è rifiuto del cambiamento storico, dell'asservimento. La modernità ha sempre un costo culturale, ma non si può sottoporre a verifiche empiriche il soprannaturale, perché i fantasmi appartengono quasi sempre al passato. E proprio sull'impalpabile confine tra il sogno e la realtà, in bilico tra il mito e lo spettacolo popolare, si situa anche la produzione dello Scott , «maggiore»: il suo preferire - come gli abitanti delle Terre Alte - «il crepuscolo dell'illusione alla ferma luce della ragione».
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