Era inevitabile che prima o poi lo SFBC ospitasse autori italiani, e c’erano fortissime probabilità che il nome più indicato ad inaugurare la serie fosse quello di Lino Aldani. Noto in Italia e forse anche più all’estero per una quasi ventennale carriera di scrittore e critico (suo fu il primo testo critico italiano sulla fantascienza, edito dalla CELT nel 1962), Aldani ha preparato per il suo ritorno un romanzo magistrale. In un’Italia del 1998 che ormai ci tocca da vicino, dove paesi e città di provincia hanno lasciato il posto a megalopoli smisurate e disumananti, fra i sussulti di una classe politica che oscilla da destra a sinistra, si muove la storia di Arno, complessa figura alla ricerca di un ruolo più umano nella società che tenta di soffocare ogni ribellione (conscia o meno). Legato per volontà paterna al nome di un fiume e nato sulle sponde di un altro corso d’acqua essenziale all’economia del romanzo, Arno ritorna alla terra dell’infanzia con speranze e disillusioni, soffrendo sulla propria pelle la profondità di certe radici sociali e individuali. Ma quando le radici sono profonde, non c’è vento, bufera o cataclisma che possa schiantare l’albero: esso perirà solo quando verrà meno la linfa vitale della terra che lo ha generato. Nella sua operazione di analisi di queste radici Aldani sa costruire una storia che parla una lingua universale. Forse è in questo il merito principale e nuovo del romanzo; nel sapersi erigere a parabola generale di un’alienazione che è ormai dentro di noi, e nei suoi contenuti che risuonano nelle nostre radici.
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