"Niente più luci, niente più brillantini. Solo il cielo nero, sporco di stelle normali. Per ognuna che conto, ce n’è un’altra. Per ogni mondo che ti delude ce n’è un altro, e un altro ancora, a prometterti la redenzione. È strano guardarle dal basso. Tremolano e pulsano e dal mio interno rispondono altre pulsazioni e so senza saperlo che quello che ho dentro è la stessa cosa che c’è lassù. Di me non rimane che un sottile confine di pelle tra due campi stellari."
Esistono periferie fisiche, fatte di zone industriali, caseggiati anonimi o cantieri abbandonati, e poi c’è la Periferia: un concetto, una zona di frontiera, un luogo universale e universalmente riconoscibile che trascende i caratteri nazionali per diventare rifugio per i reietti, gli invisibili, i marginali. È in questa terra di nessuno che prende vita l’universo di Alien Virus Love Disaster, una costellazione di fabbriche magiche e centri di smaltimento rifiuti, autostrade sopraelevate che conducono a un altrove lontano e migliore, chiese orribili dai muri color salmone e case che richiedono sacrifici umani. Un luogo dove gli alieni non solo esistono, ma vivono insieme a noi e pagano per vederci lottare; dove i ricchi organizzano feste stravaganti e i bambini giocano dentro scheletri di case mai finite; dove creature misteriose compaiono in supermercati occupati e melanconiche ragazze lunari si struggono in riva al mare.
Abbey Mei Otis presta la sua voce a queste parabole di sussistenza e resistenza, cronache di un mondo sconosciuto e insieme troppo familiare, che riesce simultaneamente a essere e non essere quello che abitiamo noi; un mondo dal quale è possibile fuggire, ma le cui cicatrici ci porteremo addosso per sempre, ovunque.
|