Il Consiglio Comunale decide la costruzione di un tempio etrusco a scopo spartitraffico nella piazza delle Conchiglie. Fa caldo: i consiglieri bramano il mare e i monti e non creano particolari intralci. Si cerca manodopera etrusca originale, ma, a quanto pare, in giro non ce n’è. Atanassim ha un’idea ritenuta geniale: contrabbanda per etruschi tre negri incolpevoli, raccattati, famelici, nei boschi. Viene nominato capomastro. Lo sguardo socchiuso — e gli sarà fatale - intravvede per sé, prospettive di gloria immortale. L’inizio è un innocuo scavo; una buca. Poi, grazie più che altro alla collaborazione dei giocondi negri-etruschi, la buca si allarga, si allarga, sprofonda, diventa un cratere minaccioso e, crollo dopo crollo, sconquassa la città. La partenza di questo viaggio all'inferno - o, più semplicemente, al centro della terra - è piuttosto affollata: vecchie prostitute romantiche bilanciate da mamme apprensive, calorose verginelle spietatamente decapitate, l’innocente ragazzo di nome Nitru, i sotterranei (che sono un popolo), esperti maghi, la vogliosa maestra Longovisa... La bizzarra impalcatura alla rovescia de «Il tempio etrusco» - che Wilcock ha descritto con una perfezione linguistica che sa di sfida - non è soltanto una satira feroce, che prende a pretesto un gioco assurdo, e muove di continuo al sorriso (sorriso che diventa magari un po’ perplesso, ma non perciò si arresta, quando ci si accorge che le parole e i gesti assurdi di questo gioco ripetono molto da vicino la realtà); non è soltanto un tentativo di ricondurre il racconto alla sua forma più semplice e quindi più difficile: la narrazione vivace e coerente di fatti significativi; è soprattutto, è in fondo, nelle parole stesse dell’autore, «un’allegoria involontaria della difficoltà, anzi dell'impossibilità di creare, oggi, mentre tutto ci crolla intorno e nessuno si cura che di salvare il proprio salvabile».
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